“E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze,
sull’erba dura di ghiaccio,
al lamento d’agnello dei fanciulli,
all’urlo nero della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.”
E come potevamo noi dipingere… verrebbe da parodiare questo potente testo poetico di Salvatore Quasimodo… con una guerra di aggressione in Ucraina, una in Israele e tante, troppe altre per il mondo da troppo tempo, e inaudite violenze verso gli oppositori in paesi governati da regimi tanto autoritari quanto sanguinari.
Ma cetre, tavolozze e pennelli non dovrebbero restare troppo a lungo appesi alle fronde dei nostri salici perché arriva il momento di levare scudi in difesa di democrazia e libertà. La mia donna-allegoria sta mettendo o staccando dalle fronde del salice gli strumenti dell’Arte con i suoi capelli-tentacolo? Certo le ciocche tagliate dei suoi capelli sul lato opposto della testa sono quelle delle donne iraniane che si levano coraggiosamente contro il regime degli Ayatollah.
E certo le sue braccia incrociate davanti al petto l’aiutano a contenere il dolore che incombe sopra la sua testa in forma di sagome buie per la distruzione di paesi e città con tutte le loro vite innocenti, per i morti abbandonati nelle piazze, per l’urlo della madre che va incontro al figlio impiccato perché oppositore, perché omosessuale, in uno spaventoso intreccio tra passato e presente di tutti i fili del male.
Bisogna farsi forza, non bisogna smettere di cantare.